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Di fronte alla smisurata vastità dell’universo il pianeta terra è come una minuscola imbarcazione. E se questa barca dovesse affondare?
Da qui inizia il nostro lungo viaggio verso Babele. Ma Babele non è un luogo è un intero pianeta, il nostro, ricco di tanta diversità, di ecosistemi fragilissimi e allo stesso tempo così potenti, di una natura che ci parla e che noi non sappiamo ascoltare, di umanità, tanta e incredibilmente diversa, di creature che stanno scomparendo, della neve che potremmo non rivedere più, di acqua, acqua che ricopre quasi interamente il nostro pianeta e che è malata.
Ho visto l’emisfero illuminato dal sole, gli elementi della natura in azione, gli uragani: questi colossali vortici che si sviluppano sugli oceani. Ho visto il rio delle amazzoni scorrere sotto di me, e per cinque minuti sono rimasto estasiato nell’ammirare quest’immenso tappeto verde che si snoda fino al mare. Il sole che sorge sull’Amazzonia e la foresta che lentamente si sveglia e ripete il suo rituale quotidiano, inspirare ed espirare, inspirare ed espirare.
Babele è attraversato da tante lingue e da tanti corpi. Cinque i performer in scena che cadono, danzano, si alzano, dando vita al respiro della terra e alla sua ribellione: il mare si innalza, le foreste bruciano, le città soffocano, e noi, osservatori silenti della nostra auto-distruzione siamo irrimediabilmente fermi. Questo lavoro è un grido disperato alla nostra umanità, un risveglio, una richiesta di azione, con o senza l’intervento dei governi, perché questa tanta, bella, ricca umanità, può davvero proteggere il pianeta, preservarlo e farlo prosperare, affinché i nostri figli e i figli dei nostri figli possano ancora chiamarlo casa.